La mafia spiegata ai più giovani: intervista ad Antonio Nicaso
Approfondiamo il tema dell'educazione alla legalità con uno dei massimi esperti di criminalità organizzata a livello internazionale
Per contrastare la criminalità organizzata le nuove generazioni hanno bisogno della guida necessaria affinché possa compiersi un'efficace operazione di educazione alla legalità. Ne abbiamo parlato con Antonio Nicaso, giornalista, scrittore e docente di Storia delle organizzazioni criminali presso la Scuola Italiana del Middlebury College di Oakland, California, e Mafia Culture and the Power of Symbols, Rituals, and Myth presso la Queen’s University di Kingston, Canada.
Qual è il metodo migliore per indurre le nuove generazioni ad interessarsi al fenomeno della lotta alle mafie?
Uno strumento importante è quello della conoscenza e quindi della partecipazione. I giovani spesso si interrogano su temi o fenomeni come quelli delle mafie e cercano risposte. Il nostro compito è quello di fare luce su tanti luoghi comuni, su tante mitologie che caratterizzano la storia, ma soprattutto le origini delle mafie. Noi cerchiamo di raccontare che le mafie sono patologie del potere e il prodotto delle classi dirigenti dell'epoca, che hanno utilizzato la violenza con l'idea di tutelare e proteggere dei privilegi, e quindi degli interessi, nel periodo del fervore rivoluzionario, nel passaggio dal regime borbonico allo stato liberale. I giovani quindi sono chiamati a partecipare, a comprendere l'importanza del fenomeno, a capire che non è possibile combatterlo solo con le manette e le sentenze, ma anche con la cultura, con la capacità critica di scegliere da che parte stare.
Come possono i giovani, nel loro piccolo, fare qualcosa di concreto per contrastare le mafie?
Innanzitutto capire l'importanza delle regole. Spesso mi domandano: "Che cosa posso fare io per combattere le mafie?". Intanto bisogna studiare e acquisire conoscenza e successivamente rispettare le regole, dall'amore per il prossimo, alla lotta al razzismo e al bullismo, tute cose che portano alla costruzione del bene comune., alla capacità di stare assieme e alla voglia di costruire qualcosa che sia studiosa del benessere sociale.
Come possono secondo lei dei giovani che vivono in realtà socialmente degradate a non farsi sedurre dalla criminalità organizzata?
Nessuno chiede ai giovani di diventare eroe o di combattere da solo il fenomeno. Io penso che oltre alle norme e alla conoscenza bisogna liberare i territori dalla paura e dai bisogni e questo è un aspetto che coinvolge la politica. I giovani possono metterci tanta buona volontà a cambiare la situazione, ma poi l'aspetto determinante è quello della politica, perché altrimenti è molto più facile trarre vantaggio da queste situazioni di disagio e di marginalità sociale. Le serie tv, i film che romanticizzano le mafie, finiscono per creare delle forme di emulazione, e questo lo possiamo combattere solo attraverso investimenti mirati, non soltanto nel mondo della scuola, ma soprattutto nell'ambito occupazionale e sociale, e deve essere un investimento pensato a trecentosessanta gradi e a lungo termine.
Come si può aiutare un giovane a riconoscere un effettivo atteggiamento mafioso e a denunciarlo senza cadere nella paura e nell'omertà?
Intanto è necessario fare delle scelte condivise. Quando si parla di omertà, la mente corre subito alla cosiddetta legge del silenzio, invece in origine "omertà" è un termine che deriva dalla parola umiltà, e quindi da obbedienza. Le mafie hanno bisogno di soldatini, un concetto simile a quello che ha spiegato Hannah Arendt in La banalità del male, hanno bisogno di burocrati del male, gente che ubbidisce senza farsi al alcuna domanda. Quando si avviano i processi di apprendistato mafioso, una delle condizioni richieste è appunto quella di non pensare, di eseguire, di obbedire. Ai giovani va insegnato l'esatto contrario, ossia l'importanza di riflettere, di poter decidere liberamente. In questo mondo si comincia a creare una sorta di massa critica, si comincia a costruire un pensiero capace di compiere delle scelte autonome. In questo la scuola, insieme al ruolo della famiglia, è fondamentale, perché non è soltanto un luogo in cui vengono trasferite delle nozioni, ma anche un momento di crescita collettiva, che ci aiuta a creare qualcosa che possa farci pensare, ci aiuta a formare una capacità critica su cosa sia giusto e cosa sia ingiusto fare.
L'educazione alla legalità si compie solo nelle scuole o trova altri canali di diffusione in cui i ragazzi/e possono inserirsi?
La mia generazione si è formata attorno agli oratori, attorno ai campetti da calcio, quando si giocava, quando si creavano momenti di condivisione, sia nelle gioie che nelle sconfitte. I giovani oggi fanno molta più fatica a socializzare, molti preferiscono stare davanti ad uno schermo e questo non aiuta. Io suggerisco sempre momenti di creatività a momenti di aggregazione, che possono avere varie tematiche, dal volontariato, alla discussione e partecipazione politica, allo sport, al teatro, tutti momenti che possono contribuire alla crescita personale di un individuo. È fondamentale la famiglia, perché è proprio lì che si comincia ad acquisire quegli elementi che ti fanno decidere, ti fanno pensare, ti fanno compiere delle scelte, ti fanno dire no, che è la cosa più importante. Oggi dire sì è la cosa più facile che si possa fare, mentre dire no è sempre più difficile, perché frutto di una consapevolezza, di un'analisi che si matura proprio in famiglia, nelle scuole e nelle forme di associazionismo sociale. Avere dalla propria parte queste tre componenti aiuta i giovani ad avere una formazione robusta che porta a scegliere da che parta stare, ossia quella di essere un cittadino attivo e responsabile. La legalità è un contenitore che va riempito di contenuti importanti, che siano frutto della partecipazione, dell'impegno di fare qualcosa per sé e per gli altri. Quello che state facendo voi con il progetto de La Giusta frequenza: giovani reporter della memoria è particolarmente importante, perché state facendo riflettere dei giovani su determinati argomenti. Voi li coinvolgete in podcast, nella discussione, nell'analisi, nel confronto, tutti elementi necessari per crescere, per rompere l'isolamento quotidiano. Tale confronto deve essere necessariamente fisico, sul territorio, per affrontare temi come il contrasto alla violenza di genere e alle mafie, tutte cose che nascono dal confronto diretto e dalla voglia di costruire qualcosa insieme agli altri.
La discussione sulla "materia" mafiosa nelle scuole italiane può essere il primo passo verso una concreta opposizione alle mafie o come operazione lascia il tempo che trova? Non ha mai timore che l'educazione alla legalità nelle aule possa risultare vana?
Potrebbe esserlo soprattutto se le mafie vengono interpretate con paradigmi esclusivamente culturali. Se noi vivendo in Nord Italia pensiamo che le mafie siano un problema del Sud ecco che parteciperemmo ad una lezione pensando che il problema non ci riguarda direttamente. Invece i fenomeni vanno spiegati e contestualizzati e va fatto capire che le mafie al Nord sono riuscite a mettere radici grazie a politici e imprenditori che hanno agito secondo logiche di convenienza e quindi far capire che le mafie oggi non sono relegate in un unico luogo, ma fanno parte della vita del paese, un paese che ha deciso di non combattere e convivere con le mafie per moltissimo tempo. È importante soprattutto avere insegnanti motivati che, ancora oggi, rendono la scuola una palestra, una fucina di pensiero, poiché è tale motivazione a cambiare completamente la prospettiva del giovane che frequenta tali classi.